domenica 27 dicembre 2009

La fama di Ferrante di Niccolò Capponi, l'ultimo degli auditori dei benefici ecclesiastici "in solitario"


Nella foto la cappella Barbadori Capponi in Santa Felicita a Firenze, chiesa dove si trova il cenotafio di Ferrante di Niccolò Capponi. Un'altro dei proprietari della villa Gerini è stato Ferrante di Niccolò Capponi di cui vale sicuramente la pena di parlare visto il suo incarico di altissima responsabilità in seno all'amministrazione medicea. Il nuovo principato mediceo di Cosimo I si consolidò in Toscana ben prima della Controriforma. Creatura di papi e cardinali di Casa Medici, ma osteggiato da altri pontefici (a partire da Paolo III Farnese, che voleva creare uno Stato per la sua famiglia), il ducato di Firenze conobbe sotto Cosimo I una fase di riorganizzazione istituzionale, che coinvolse anche le Chiese locali. Fra le non poche riforme cosimiane in questo settore ne vanno ricordate almeno tre. Con la circolare del 15 luglio 1539 sull’amministrazione dei benefici ecclesiastici vacanti il duca affidò ad una nuova magistratura fiorentina – l’Auditorato dei benefici vacanti – l’amministrazione di quegli uffici ecclesiastici, che erano temporaneamente privi dei loro rispettivi titolari. In virtù di questa circolare, ad ogni vacanza di ogni beneficio, il rappresentante locale del governo nominava un vicario, che aveva l’incarico di curare il patrimonio e di soddisfare gli oneri sacri (come la celebrazione delle messe), sotto la vigilanza dell’Auditorato. In questo stesso ufficio, poi, si dovevano presentare i nuovi rettori per esibire i documenti delle loro nomine ed ottenere quella «licenza di possesso», che era indispensabile per ottenere dal vicario pro-tempore la consegna del patrimonio beneficiale. Come nello Stato di Milano, questo ministero divenne il grande controllore statale della legittimità delle nuove nomine a questi uffici e sin dagli inizi della sua attività dimostrò di voler difendere gli antichi diritti di nomina vantati dai laici, si trattasse di famiglie private, di comunità rurali o di enti pubblici. Già nel 1532 gli affari relativi alla giurisdizione erano stati assegnati a una commissione di quattro senatori presieduta dal Duca. Dal 1546, invece, di questa materia risulta essersi occupato un unico Auditore della giurisdizione, una carica riguardo alla cui istituzione non è pervenuto o, più probabilmente, non fu emanato alcun decreto ufficiale che ne stabilisse le funzioni in maniera specifica. Le competenze di questo magistrato, tuttavia, consistevano nella tutela della giurisdizione del principe da interferenze di autorità straniere e nella vigilanza su funzionari e magistrati interni. In seguito l'attenzione e l'attività dell'Auditore si concentrarono soprattutto sui rapporti tra la giurisdizione civile e quella ecclesiastica, in difesa dei diritti del Granduca nelle relazioni con la Curia romana e con le istituzioni religiose presenti in Toscana. Una materia particolarmente spinosa e controversa, perché coinvolgeva tendenzialmente un numero vario e multiforme di persone giuridiche, fu sempre quella dei benefici ecclesiastici. L'Auditore, in particolare, aveva il compito di rilasciare una "licenza", detta anche "polizza di possesso", ai nuovi rettori, cui non bastava l'investitura canonica per entrare in effettivo possesso dei beni patrimoniali dei benefici (le cosiddette "temporalità"), ma avevano bisogno appunto di un riconoscimento da parte dell'autorità civile. Il Granduca, in tal modo, manteneva il proprio controllo, anche politico, sul vasto patrimonio delle chiese locali spettanti ai membri del clero. I benefici, d'altra parte, erano di natura diversa. Alcuni venivano assegnati solo dal papa e dai vescovi, altri erano di competenza di capitoli ecclesiastici o di altri corpi religiosi, altri ancora erano prerogativa di soggetti laici (singoli individui, nuclei familiari, comunità, il Granduca stesso ecc.) che dotavano un ente religioso di beni su cui poi mantenevano un diritto il patronato. Un insieme tanto complesso di interessi non mancava di creare conflitti e contenziosi, di cui rimane traccia soprattutto nella serie dei cosiddetti "Negozi beneficiali e giurisdizionali", presente nel fondo dell'"Audiore dei benefici ecclesiastici poi Segreteria del Regio Diritto". L'Auditore, inoltre, si occupava degli atti emanati dalle supreme autorità ecclesiastiche per valutarne validità e applicabilità all'interno del Granducato, in conformità con l'istituto giuridico dell'"Exequatur". Doveva, inoltre, esercitare le funzioni di supremo giudice in materia ecclesiastica, discutere a chi toccasse giudicare i religiosi passibili di processo ed eventualmente occuparsi della loro cattura. Una parte non secondaria dell'attività dell'Auditore, poi, riguardava l'operato delle giusdicenze del dominio, cioè controllava i rettori dei dipartimenti locali, sia in rapporto con le altre giurisdizioni, e quindi soprattutto con quella ecclesiastica, sia in relazione al governo centrale. Cruciali erano infine le questioni e la salvaguardia dei confini del Granducato nonché le controversie riguardanti le precedenze nei rapporti internazionali. La carica era perciò delicata e prestigiosa tanto da essere assegnata a uomini di fiducia del principe. Durante il governo di Cosimo I fu ricoperta dal giurista Lelio Torelli, un "lutaraneggiante" ma anche uno dei consiglieri più intimi e apprezzati dal sovrano, di cui era anche Segretario e Auditore di camera. Torelli mantenne la carica fino alla morte, avvenuta nel 1576. Già all'epoca del primo Granduca gli affari trattati dall'Auditore della giurisdizione videro prevalere progressivamente le questioni relative ai rapporti con l'autorità della Santa Sede, rappresentata sul territorio granducale principalmente dai vescovi, dai tribunali ecclesiastici, dai commissari e delegati apostolici e, dal 1560, dal nunzio apostolico, tanto che ne risentì la denominazione stessa del magistrato che fu indicato sempre più spesso come Auditore dei benefici ecclesiastici. Segno dell'attenzione costante per rapporti con la Curia è la fitta rete di corrispondenze intrattenuta dall'Auditore con gli ambasciatori medicei residenti a Roma. Dopo Lelio Torelli, la carica fu detenuta da Giovan Battista Concini (1576-1605), Paolo Vinta (1605-1609), Niccolò dell'Antella (1609-1630), Alessandro Vettori (1631-1661) e dal nostro Ferrante Capponi (1661-1688). In genere i titolari furono sempre molto determinati ed incisivi nella difesa della giurisdizione dello Stato contro quella della Chiesa, anche se nel corso del Seicento è stato riscontrato un processo di progressivo cedimento del primo nei confronti della seconda, in particolare durante il periodo di reggenza di Maria Maddalena d'Austria e di Cristina di Lorena (1621-1628), che governarono a nome del minorenne Ferdinando II, si assistette ad un indebolimento dell'autorità granducale rispetto a quella della Chiesa, determinato sia dalla ridotta capacità di imporsi da parte delle tutrici sia dal clima controriformistico, che portò la corte medicea ad allinearsi in maniera più puntuale ai dettami della Santa Sede. Morto Capponi, l'incarico fu affidato, per un breve periodo, all'allora notaio e cancelliere dell'ufficio, Michelangelo Ceccarelli dopodiché il Granduca Cosimo III istituì la "Congregazione per gli affari giurisdizionali", una commissione composta dal titolare dell'Auditorato più tre membri, uno dei quali doveva ricoprire il ruolo di segretario con il compito di istruire gli affari e di tenere informato il principe. Una volta scelti dal Granduca, i nomi dei membri dovevano essere comunicati alla Segreteria delle Tratte che li registrava e li rendeva pubblici. I primi nominati furono l'auditore Pietro Angeli, il sacerdote Francesco Maria Sergrifi, l'auditore Andrea Poltri e il preposto Felice Monsacchi. Successivamente entrarono nella Congregazione l'avvocato Domenico Andreoni, Filippo Buonarroti, il senatore e presidente dell'ordine di S. Stefano Niccolò Antinori, Federico Giordani e Giovan Battista Cerretani. La creazione della commissione rientrò in una politica più generale di Cosimo III che istituì organi collegiali anche in altri ambiti. Si è pure ipotizzato che la Chiesa stessa incoraggiasse tale innovazione perché non disposta ad accettare decisioni prese da un unico individuo laico in questioni tanto delicate e centrali per i suoi interessi. Nel 1733, in sostituzione del deceduto Filippo Buonarroti il Granduca Gian Gastone nominò come titolare della carica l'agguerrito Giulio Rucellai, che agì dimostrando una notevole indipendenza rispetto agli altri membri della Congregazione e assumendo un atteggiamento tutt'altro che conciliante nei confronti della Santa Sede. Rucellai fu l'ultimo Auditore dei benefici ecclesiastici poiché nel 1737 la Reggenza lorenese abolì formalmente la magistratura e creò la Segreteria del Regio Diritto. Il cenotafio del senatore Ferrante di Niccolò Capponi, morto il 14 gennaio 1688 si trova nella chiesa di Santa Felicita a Firenze.

Piccola storia del conte Orlando Malevolti del Benino, il sestese che si oppose alla presa del potere dei napoleonici


Nella foto: stemma della famiglia Del Benino posta sul palazzo dei Priori di Volterra.
Il marchese Orlando del Banino fu uno dei proprietari della villa Gerini ed a lui vennero consegnate le monete d'oro ritrovate nel parco della villa. Ma il marchese fu anche famoso per un altro episodio che si ricava dalle ‘Cronache Fiorentine’ di Giuseppe Conti, 1801: "Ed il 2 agosto ebbe luogo in Palazzo Vecchio la solenne cerimonia del giuramento al nuovo Sovrano, alla quale intervenne Murat, e il Magistrato civico fiorentino "come rappresentante il soppresso Consiglio dei dugento". L'avvocato regio Tommaso Magnani, ed il luogotenente del Senato Orlando Malavolti del Benino, ebbero l'audacia di pronunziare all'indirizzo del nuovo re, in presenza del suo mandatario marchese di Gallinella, con tutta la filastrocca dei titoli alla spagnola, compreso quello di "gentiluomo di camera con esercizio", ipocrite e in quel momento in ispecie, mendaci parole. Con queste lacrime di coccodrillo si rimpiangeva un buon uomo mandato via come un servitore licenziato su due piedi, non perché fosse chiamato a felicitare altri popoli; ma perché i francesi non ce lo vollero più per venirci loro. E l'insolenza della concione dell'avvocato regio risaltava maggiore dal fatto che appunto il trattato di Luneville, come abbiamo veduto, convertiva la Toscana in Regno d'Etruria, e l'assegnava all’infante Lodovico, l'imperatore Francesco nel dì 9 febbraio 1801 a nome del fratello granduca Ferdinando, per sé e suoi successori, rinunziò alla Toscana ed all'isola dell'Elba: e l'imperatore stesso si obbligò di indennizzarlo in Germania di quanto perdeva in Italia. E la meschina indennità consisté nello spogliare l'arcivescovo di Salisburgo della potestà laica che esercitava insieme con l'ecclesiastica nella sua diocesi, e formarne un principato per Ferdinando III, che assunse il titolo di Elettore, facendo, in tal guisa, come si suol dire, quinta per discendere. Così il cristianissimo imperatore diede un minuscolo esempio di soppressione di potere temporale. Ma in casa nostra costoro fanno i difensori della Chiesa!...A queste spudorate parole si unì lo smacco delle altre ad elogio del nuovo padrone, dicendo: "Felici noi, che vediamo rianimate le nostre speranze con l'avvenimento al trono di S..M. Lodovico Primo, Infante di Spagna, nostro Re e Signore"!...Ribadì il chiodo il Malevolti del Benino, cominciando anche lui col piagnucolare sulla "rimembranza dell'amara perdita fatta dell'amato nostro sovrano il serenissimo granduca Ferdinando III, destinato a governare e felicitare altri popoli", e proseguiva: "la memoria di un tenero padre, che formò sempre la delizia, la felicità dei sudditi, e l'ammirazione delle Nazioni tutte d'Europa, non poteva non eccitare vivamente la nostra tenerezza, il nostro dolore; le di lui sovrane beneficenze, le regie di lui virtù, il di lui dolce e generoso carattere, saranno eternamente scolpiti nei nostri cuori, e sempre rammenteremo con piacere il nostro benefattore".E di fatti lo ricompensaron bene il loro padre e benefattore! "Solamente" continuò con la sua faccia verniciata il Del Benino "poteva calmare il nostro cordoglio quel nuovo monarca che ci viene annunziato; e S. M. Lodovico Primo poteva solo eccitare in noi i sentimenti di gioia e di letizia". Ed ora bastano le citazioni, perché si fa il viso rosso soltanto a leggerle, queste parole. I liberali veri se non amavano Ferdinando perché soggetto all'Austria, non ebbero mai la viltà di fingere un dolore che non sentivano, come facevano coloro che gli si eran sempre protestati affezionatissimi sudditi ed umilissimi servitori…".

sabato 26 dicembre 2009

Biografia di Pio XII: il Papa che venne a Sesto


Nella foto: la stuatua di Pio XII nel piazzale del Verano a Roma, opera dello scultore sestese Antonio Berti, oggi preda dell'incuria e di atti vandalici.
Papa Pio XII, nato Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli e detto il "Pastore Angelico" (Roma, 2 marzo 1876 – Castel Gandolfo, 9 ottobre 1958), è stato il 260° papa della Chiesa cattolica. Nel 2009, a conclusione della seconda fase di beatificazione, ha ricevuto il titolo di venerabile, che ne attesta l'eroicità delle virtù per la Chiesa. Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli nacque a Roma il 2 marzo 1876, terzogenito dell'avvocato della Sacra Rota Filippo Pacelli (1837-1916) e di Virginia Graziosi (1844-1920). I titoli nobiliari della famiglia Pacelli (nobili di Acquapendente e di Sant'Angelo in Vado, titoli concessi alla famiglia nel 1853 e 1858 erano recente conseguenza dei tempi della seconda Repubblica Romana (1848-1849) quando il papa-re Pio IX fu esiliato a Gaeta e Marcantonio Pacelli (1804-1890) da Onano (Viterbo), nonno paterno di Eugenio, che aveva seguito il Papa nella cittadina laziale, fu premiato con i titoli di principe e di marchese sia per la sua fedeltà che per aver operato dopo la fine della Repubblica, nel ruolo di Sostituto del Ministro dell'Interno, una feroce repressione nei confronti dei patrioti italiani che si opponevano al governo papalino. Lo stesso Marcantonio fu, successivamente, tra i fondatori dell'Osservatore Romano (1861).Dopo le elementari frequentate in una scuola privata cattolica e la frequenza al liceo di Stato "Ennio Quirino Visconti", Eugenio Pacelli entrò nel Collegio Capranica e poi, dal 1894 al 1899, studiò teologia alla Gregoriana presso cui si dottorò nel 1901, quando già da due anni era stato ordinato sacerdote (1899). Del 1902 è la laurea in giurisprudenza in utroque iure (vale a dire, sia in diritto civile, sia in quello canonico), anche se non ebbe mai modo di praticare l'avvocatura, strada che seguì suo fratello Francesco, giurista per la Santa Sede e uno dei principali negoziatori dei futuri Patti Lateranensi del 1929. Eugenio sentì sin da piccolo la "vocazione": pare che nei momenti liberi amasse far finta di celebrare la Messa. Determinante per la sua formazione fu l’influenza che ebbe, a partire dall’età di 8 anni, il reverendo Giuseppe Lais, scienziato astronomo, discendente da una storica famiglia romana di origine sassone, per molti anni precettore e mentore del futuro papa Pio XII, in seguito insignito da papa Benedetto XV della medaglia d’oro pontificia. Dietro raccomandazione del cardinale Vincenzo Vannutelli, che più tardi sarebbe diventato decano del Sacro Collegio, Pacelli iniziò una rapida carriera nella Curia romana come segretario del cardinale Pietro Gasparri (futuro segretario di Stato), all'epoca sottosegretario della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici straordinari. Nel 1904, dopo la specializzazione accademica in relazioni fra Stato e Chiesa, fu promosso e divenne monsignore-ciambellano del papa Pio X. Pacelli vide con favore l'introduzione del Giuramento Antimodernista da parte di Pio X, preoccupato per le influenze libertarie che stavano contagiando il clero italiano, e si applicò con zelo alla stesura di un nuovo codice di diritto canonico e, a partire dal 1911, alla carica di consultore presso il Sant'Uffizio e nello stesso anno divenne sottosegretario della congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari. Come giovane prete fu artefice del concordato stipulato tra il Regno di Serbia e la Santa Sede il 24 giugno del 1914, pochissimi giorni prima dell'inizio della Grande Guerra. Se da un lato tale accordo garantiva finanziamenti statali all'episcopato cattolico in Serbia, dall'altro fu una delle cause dell'accentuarsi delle tensioni tra quello Stato e il confinante impero austro-ungarico, che culminarono poi nello scoppio del conflitto bellico. Il 13 maggio 1917 (lo stesso giorno della prima apparizione della Madonna a Fatima), Benedetto XV lo ordinò vescovo elevandolo in pari tempo alla dignità arcivescovile col titolo di arcivescovo titolare di Sardi e lo nominò nunzio apostolico in Baviera. Dopo la consacrazione, il neovescovo disse che mentre passeggiava nei Giardini Vaticani avrebbe assistito stupefatto al "miracolo del sole". Questa fu una delle cause della forte devozione di Papa Pacelli nei confronti della Madonna di Fatima. Dal 1925 Pacelli fu anche nunzio apostolico in Prussia. In tale veste egli concluse i concordati con i due Länder: in Baviera nel 1924, in Prussia nel 1929. Sempre nel 1929, l'11 febbraio, Mussolini e il cardinal Gasparri firmarono i Patti Lateranensi, frutto della mediazione di Domenico Barone e di Francesco Pacelli. Contemporaneamente, dal 1920, fu primo nunzio per l'intera Germania con sede nella nuova nunziatura di Berlino. Durante questi dodici anni Pacelli si avvicinò molto al mondo tedesco e conobbe bene la realtà politica della Repubblica di Weimar. Il 19 aprile 1919, durante la cosiddetta rivoluzione promossa dalla Lega spartachista, di ispirazione comunista, la nunziatura di Monaco di Baviera fu accerchiata da un gruppo di rivoluzionari, che intendevano farvi irruzione. Il leader del gruppo,Siedl, estrasse una pistola e la puntò al petto di Pacelli, il quale si era personalmente posto a difesa dell'entrata della nunziatura. Sebbene scosso, il nunzio non intendeva cedere, affiancato da una coraggiosa suora tedesca, Pascalina Lehnert che si era interposta tra i rivoluzionari e il nunzio. Siedl non se la sentì di andare avanti e ordinò agli spartachisti di ritirarsi. Pacelli scriverà a riguardo: « Sono dei veri e propri russi bolscevichi». Eugenio Pacelli fu nominato cardinale da Pio XI il 16 dicembre 1929; il 7 febbraio 1930 divenne segretario di Stato. Al fine di regolare le relazioni tra la Santa Sede e gli altri Stati, difendere le attività di scuole e ospedali cattolici, garantire le tasse ecclesiastiche e i beni materiali della Chiesa, negoziò diversi concordati con il Baden nel 1932, l'Austria nel 1933, la Jugoslavia nel 1935. Il più discusso tuttavia fu quello firmato a Roma il 20 luglio 1933 con la Germania del cancelliere Adolf Hitler, il Reichskonkordat. Questo concordato, che seguiva di pochissimi giorni la sigla del Patto a quattro, avvenuta sempre a Roma, fu particolarmente discusso in quanto insieme all'altro dava - pochi mesi dopo l'ascesa di Hitler al potere (30 gennaio 1933), la fine di ogni vita democratica in Germania e la proibizione di tutti i partiti politici, compreso quello cattolico del Centro (Zentrumspartei) - un ulteriore riconoscimento internazionale al regime nazista. Secondo molte testimonianze, Pacelli avrebbe ricercato con costanza un concordato sin dal periodo della sua nunziatura, negli anni venti. Heinrich Brüning, leader della Deutsche Zentrumspartei, partito cattolico di centro, dichiarò nelle sue memorie che Pacelli, in occasione di un incontro del 1931 (quando Brüning era cancelliere), avrebbe insistentemente premuto per la dissoluzione dell'accordo di coalizione con il partito socialdemocratico, ponendola quasi come una condizione per la stipula del concordato, ma il cancelliere avrebbe respinto la sollecitazione considerando che il prelato fosse in grave errore di valutazione sulla situazione politica tedesca e, in particolare, sul peso del nascente partito nazista. In ogni caso il Reichskonkordat, malgrado le apparenti garanzie per la Chiesa (soppresse nell'Ottocento per il Kulturkampf) e i fedeli tedeschi, fu sistematicamente violato dai nazisti e Pacelli stesso inviò 55 note di protesta per la violazione da parte del Reich nel periodo 1933-1939: la Chiesa cattolica nella Germania nazista avrebbe lamentato di dover agire in condizioni difficili. Questo tentativo fallito di venire a patti con il nazismo (sono del 1936 le pressioni fatte anche dalla Chiesa verso Hitler perché aiutasse i falangisti di Francisco Franco a rovesciare il governo marxista in Spagna[3]) condusse Pio XI a stilare un'ammonitoria enciclica nel 1937, dal titolo Mit brennender Sorge (Con viva preoccupazione). Tra il 1937 e il 1939 si esplicita pienamente una differenza tra Pio XI e il suo segretario di Stato, Eugenio Pacelli, il quale è sempre deciso a seguire una via diplomatica di mediazione con il regime nazista – via che, del resto, cercherà di recuperare ansiosamente appena salirà al soglio pontificio – mentre le posizioni di papa Ratti sembrano propendere per la rottura.[4] Come Segretario di Stato, fu spesso in viaggio sia con una serie di importanti missioni diplomatiche negli Stati Uniti nel 1936, sia con la partecipazione a una serie di congressi eucaristici in Ungheria e Argentina, o a manifestazioni religiose a Lourdes o Lisieux, viaggi che gli permisero, tra l'altro, di farsi conoscere dalle gerarchie cattoliche esterne alla Curia Romana. Pacelli fu tra i primi prelati ad usare l'aereo per i suoi spostamenti e per questo un giornale americano lo soprannominò il "cardinal volante". Pio XI morì il 10 febbraio 1939. In qualità di camerlengo, toccò proprio a Pacelli dirigere il conclave che ne seguì. Il 2 marzo 1939, dopo solo tre scrutini e un giorno di votazioni, la scelta ricadde sullo stesso Pacelli, che si impose il nome di Pio XII, a simboleggiare la continuità dell'operato con il precedente capo della Chiesa. Fatto insolito per un conclave, fu eletto colui che, alla vigilia, aveva le migliori possibilità di diventare papa. In effetti Pacelli rappresentava un'ottima scelta politica in quanto era il più esperto in diplomazia tra i cardinali del Collegio. Pacelli fu il primo segretario di Stato dal 1667 (Clemente IX) e il secondo camerlengo (dopo Leone XIII) a venir eletto papa. L'elezione e l'incoronazione di Pacelli ebbero un'accoglienza mista in Germania. Da parte di alcuni settori della stampa tedesca, giunsero commenti alquanto ostili: il Berliner Morgenpost scrisse che «l'elezione di Pacelli non è accolta favorevolmente in Germania poiché egli è sempre stato ostile al nazionalsocialismo»; la Frankfurter Zeitung scrisse che «molti dei suoi discorsi hanno dimostrato che non comprende del tutto le ragioni politiche e ideologiche che hanno iniziato la loro marcia vittoriosa in Germania».[5] D'altra parte l'elezione è accolta favorevolmente in ambienti diplomatici: il capo del Dipartimento degli Affari vaticani presso il Ministero degli Affari esteri del Reich, il consigliere Du Moulin, redige un memorandum sulle tendenze politiche e sulla personalità del nuovo pontefice ove si descrive il neo eletto come «molto amico della Germania». A Berlino ci si ricorda che Pacelli fu il promotore del Concordato fra la S. Sede e il Terzo Reich e che quando le relazioni fra Chiesa e regime nazionalsocialista si fecero tese, l'atteggiamento del segretario di Stato fu sempre, secondo i dispacci dell'ambasciatore Bergen, molto più conciliante di quello di Pio XI. Il giorno stesso della elezione del nuovo pontefice, il conte Ciano, ministro italiano degli Affari esteri, annotava nel suo diario che alla vigilia, Pignatti di Custoza, ambasciatore d'Italia presso la S. Sede, gli aveva detto essere Pacelli il cardinale favorito dai tedeschi. Uno dei primi atti di Pio XII dopo la sua elezione fu, nell'aprile del 1939, quello di togliere dall' Indice i libri di Charles Maurras, animatore del gruppo politico di estrema destra, antisemita e anticomunista, Action Française (che aveva molti simpatizzanti e seguaci cattolici), ai cui aderenti revocò, tra l'altro, anche l'interdizione dai sacramenti irrogata da Pio XI. Alcuni storici tendono a leggere questo episodio non tanto in chiave antisemita quanto pragmaticamente anticomunista, stante la necessità di favorire gruppi e aggregazioni che sapessero competere, quanto a organizzazione e rapidità di azione politica, con quelli di ispirazione marxista, la cui capacità di mobilitazione nelle Brigate Internazionali nella recente Guerra di Spagna era chiaramente emersa. Altri storici, comunque, sono del parere che il provvedimento sarebbe stato in linea con una minore riprovazione nei confronti del pregiudizio antisemita, in un periodo storico in cui anche l'Italia iniziava a dar concreta applicazione alle c.d. leggi per la difesa della razza.Secondo la sociologa e storica francese Jeannine Verdès-Leroux, i discorsi antisemiti divulgati da L'Action Française hanno contribuito «a rendere "possibile", "accettabile" l'introduzione dello statuto degli ebrei nell'ottobre 1940; l'assuefazione ai discorsi di Maurras e dei suoi accoliti – discorsi che si erano diffusi, avevano oltrepassato la cerchia degli adepti – ha attenuato, in qualche modo, il carattere mostruoso di quelle misure». Nella sua prima enciclica Summi Pontificatus (1939), Pio XII attaccò genericamente qualsiasi forma di totalitarismo. Sempre nel 1939, proclamò san Francesco d'Assisi e santa Caterina da Siena patroni d'Italia. Nel 1940 riconobbe definitivamente le apparizioni di Fatima e consacrò nel 1942 il mondo intero al Cuore Immacolato di Maria. Inoltre incontrò più volte suor Lucia e le ordinò di trascrivere i famosi segreti di Fatima diventando quindi il primo pontefice a conoscere il famoso terzo segreto che ordinò però di far restare nascosto. Eletto in un periodo di grandi tensioni internazionali, con il regime nazista che iniziava ad occupare molti territori europei, il Papa tentò invano di scongiurare il rischio di una nuova guerra mondiale con diverse iniziative fra cui la più famosa è il discorso alla radio del 24 agosto 1939 in cui pronunciò la frase simbolo del suo pontificato: "Nulla è perduto con la pace; tutto può essere perduto con la guerra". Tuttavia furono inutili. Il 1º settembre, la Germania invade la Polonia e il 3, Francia e Regno Unito rispondono all'attacco: è la seconda guerra mondiale. Papa Pacelli tentò con altri appelli di far cessare le ostilità e organizzò aiuti alle popolazioni colpite e creò l'ufficio informazioni sui prigionieri e sui dispersi. Cercò, inoltre di distogliere il fascismo dall'idea di far entrare in guerra l'Italia ma nonostante ciò il 10 giugno del 1940 anche l'Italia entrò in guerra. Vari e ripetuti furono gli appelli del Papa in favore della pace. Vanno ricordati in particolare i radiomessaggi natalizi di Pio XII del 1941, 1942 e 1943, in cui Pacelli delineava anche un nuovo ordine mondiale basato sul rispetto reciproco fra le Nazioni e i popoli. Nel 1942, nel tentativo di fermare la guerra, appoggiò l'operazione "Orchestra Nera", formata da dissidenti nazisti, esponenti democratici, sacerdoti cattolici, pastori protestanti con l'obiettivo di assassinare Hitler e fermare la guerra. Pio XII, si fece garante presso gli Alleati e chiese loro di sostenere l'Orchestra Nera. Tuttavia i britannici non appoggiarono l'operazione e questa naufragò. Nel 1941 trasforma la Commissione delle Opere Pie, nata nel 1887, nell'Istituto per le Opere di Religione (IOR), diventando un istituto di credito. Una delle accuse più gravi che si rivolgono a Pio XII è di non aver mai condannato né di essersi impegnato per fermare le deportazioni degli Ebrei nei campi di concentramento, di cui era forse a conoscenza; tale critica sostenuta solo dopo molti anni dagli eventi, ha però il vizio di essere affermata solo da esponenti anticattolici e anticlericali. In effetti, secondo stime indipendenti e ampiamente documentate da numerosissime testimonianze, la Chiesa cattolica durante il pontificato di Pio XII è stata la principale sostenitrice nei fatti nel contrastare il genocido ebraico, pagando anche con la vita di molti religiosi; una stima imprecisa valuta che circa 600.000 ebrei siano stati salvati dall'Olocausto, un numero molto superiore a quello ottenuto da altre organizzazioni umanitarie e chiese cristiane messe insieme; questo grazie all'opera nascosta di sacerdoti, frati, suore, laici, i quali operarono sicuramente con la benedizione segreta di papa Pio XII. Si ricordi che i futuri papi Roncalli, Luciani e Wojtyla salvarono e nascosero ai Tedeschi gruppi e famiglie ebraiche. Il Papa stesso offrì rifugio a numerosi Ebrei nei palazzi del Vaticano e nelle chiese romane. La controversia sul ruolo di Pio XII durante le persecuzioni naziste nei confronti degli ebrei è, comunque, tuttora lungi dall'essere chiusa: lo Yad Vashem, il museo dell'Olocausto di Gerusalemme, ospita dal 2005 una fotografia di Pio XII, la cui didascalia in calce ne definisce «ambiguo» il comportamento di fronte allo sterminio degli ebrei. A seguito di formale richiesta di modifica di tale didascalia nel 2006 i responsabili del museo si mostrarono disposti a riesaminare la condotta di Pio XII a condizione che ai propri ricercatori venisse concesso di poter accedere agli archivi storici del Vaticano; tale permesso non fu mai accordato. Più recentemente, il nunzio apostolico mons. Antonio Franco dapprima declinò, poi decise di accettare, l'invito a partecipare alla commemorazione della Shoah tenutasi al museo il 15 aprile 2007. Nell'occasione il direttore del museo stesso, Avner Shalev, promise che avrebbe riconsiderato la maniera in cui Pio XII era descritto nella didascalia. Al momento tuttavia la didascalia non ha mai subìto alcuna modifica. Durante l'occupazione nazista dell'Italia, dopo l'8 settembre, offrì asilo politico presso la Santa Sede a molti esponenti politici antifascisti tra cui Alcide De Gasperi e Pietro Nenni, appellandosi al fatto che la Città del Vaticano era uno Stato sovrano. Non sempre i Tedeschi rispettarono l'extraterritorialità di alcune altre aree a Roma, di pertinenza della Santa Sede: nell'inverno del 1943 i Tedeschi fecero irruzione nella Basilica di San Paolo fuori le Mura dove arrestarono chi vi si era rifugiato, ed è stato scoperto di recente un piano segreto di Hitler che prevedeva l'occupazione del Vaticano e l'arresto di Pio XII, il quale secondo il dittatore nazista ostacolava i piani della Germania [12]. A questo proposito, per evitare che Hitler tenesse prigioniero il Papa, Pacelli preparò una lettera di dimissioni da utilizzare in caso di propria cattura, dando istruzioni di tenere un successivo Conclave a Lisbona. Nel 1943, quando i tedeschi imposero agli Ebrei romani di versare oro in cambio di una effimera e temporanea salvezza, il Vaticano contribuì fornendo 20 dei 50 chili d'oro richiesti. Secondo molti storici, i tedeschi avrebbero poi organizzato il ratto del ghetto di Roma proprio per affronto a papa Pacelli. Il 19 luglio 1943 dopo il violento bombardamento di San Lorenzo a Roma, si recò nei quartieri colpiti, uscita eccezionale del Pontefice dal Vaticano (allora il Papa usciva dal suo Stato in casi estremamente rari).. Il 4 giugno 1944, dopo la liberazione ricevette in Vaticano i soldati alleati. La domenica successiva i Romani si recarono in massa a Piazza San Pietro a salutare e a festeggiare il Papa, che, di fatto, era l'unica autorità rimasta nella capitale dopo l'8 settembre. Neutrale durante il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, dovette a guerra finita fronteggiare la nascita della guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi contrapposti. In questo caso, però, il Papa non si mantenne sopra le parti ma si schierò decisamente contro il comunismo, di cui fu un fermo oppositore. Nelle elezioni del 1948 si schierò con determinazione a favore della Democrazia Cristiana, favorendone la schiacciante vittoria, e appoggerà sempre con slancio questo partito anche se non condivise alcune scelte di Alcide De Gasperi, tra cui il rifiuto di quest'ultimo di collaborare con i partiti di destra. Nel 1949, dimostrò un certo interesse alle opere di carità - ricevette in visita il sacerdote Giulio Facibeni, noto per aver fondato l'Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa - e tolse la sospensione a divinis a Don Zeno, fondatore della comunità di Nomadelfia. Inoltre, impose al Sant'Uffizio di "lasciar stare Padre Pio". L'anno successivo, con un atto clamoroso a livello mondiale, scomunicò tutti i comunisti e, in seguito alle persecuzioni dei cristiani nell'Europa dell'Est, i capi di governo ad essi riferiti. Inoltre cercò di attivare contatti e di salvare i cattolici dalle deportazioni nei gulag sovietici, pur senza riuscirci. Ma in un mondo ancora segnato dalle ferite della guerra, intuì che più che un Papa politico, la gente aveva bisogno di un "pastore angelico che porta il suo gregge sulle vie della pace". Con questi intenti, Pio XII proclamò il Giubileo del 1950, cui molti si dichiararono contrari. In tanti, sostenevano che l'Italia ancora distrutta dalla guerra non era in grado di reggere ad una manifestazione di respiro mondiale. Invece, il Giubileo con il suo messaggio di riconciliazione, speranza e pace fu un vero trionfo con oltre un milione e mezzo di pellegrini che tra l'altro contribuì a far conoscere le bellezze italiane all'estero, favorendo i primi boom turistici. Durante il Giubileo con la bolla Munificentissimus Deus istituì il dogma dell'Assunzione di Maria ricorrendo per l'unica volta in tutto il Novecento all'infallibilità papale. Inoltre, venendo incontro alle numerose richieste dei fedeli, proclamò santa Maria Goretti, sebbene fossero passati solo due anni dalla sua beatificazione (all'epoca il diritto canonico prevedeva che passassero almeno vent'anni). Tuttavia, in molti videro questa canonizzazione come un gesto anti-femminista. Negli anni successivi, Pio XII, anche per il suo carattere schivo e introverso, s'isolò molto, non convocando più nuovi concistori e ridusse all'osso l'organizzazione della Curia Romana (dal 1944 non nominò nessun nuovo Segretario di Stato). Tuttavia fu un Papa particolarmente amato dalla gente: istituì l'Angelus domenicale dalla finestra di Piazza San Pietro e fu il primo Papa ad essere trasmesso in televisione (sul cui uso emise anche un'enciclica). Grazie alle sue numerose conoscenze linguistiche fu uno dei primi a rivolgersi in lingua straniera ai pellegrini che venivano a Roma. Nel 1951 affermò nella Humani Generis la compatibilità tra fede cattolica ed evoluzionismo. Nel 1952 in un famoso discorso alle ostetriche ammise che i coniugi avessero rapporti sessuali durante il periodo di sterilità naturale della donna che è ancora oggi l'unico mezzo di contraccezione riconosciuto dalla Chiesa. Inoltre in molti discorsi ai giovani sposi, rilanciò il ruolo della famiglia e del matrimonio e indicò la Sacra Famiglia come modello di santità per le famiglie. Venendo incontro alle richieste del mondo moderno autorizzò diversi provvedimenti, preludio delle riforme del Concilio Vaticano II: permise la celebrazione della Messa nelle ore serali, apportò modifiche alla lettura dei Salmi nel Breviario dei sacerdoti, riorganizzò l'ufficio del digiuno eucaristico riducendolo a tre ore per i cibi solidi, a un'ora per le bevande, a zero ore per l'acqua e i medicinali. Consapevole dei benefici apportati dal progresso, ma anche dei pericoli insiti in esso, aggravati dall'instabilità della situazione internazionale dovuta alla guerra fredda, Pio XII era convinto che la vera pace avrebbe potuto scaturire solo da un nuovo ordine cristiano del mondo. Un tale ordine gli sembrava minacciato dalla perdita del senso di responsabilità individuale, schiacciato dalla massificazione sociale, in cui ognuno era come diventato una semplice ruota di organismi privi di consapevolezza, e in cui la libertà risultava dunque svuotata: "È però un fatto doloroso che oggi non si stima e non si possiede più la vera libertà. [...] Questa è la condizione dolorosa, la quale inceppa anche la Chiesa nei suoi sforzi di pacificazione, nei suoi richiami alla consapevolezza della vera libertà umana [...] Invano essa moltiplicherebbe i suoi inviti a uomini privi di quella consapevolezza, ed anche più inutilmente li rivolgerebbe ad una società ridotta a puro automatismo. Tale è la purtroppo diffusa debolezza di un mondo che ama di chiamarsi con enfasi "il mondo libero". Esso si illude e non conosce se stesso". La salute di Pio XII si aggravò durante la fine del decennio: fu afflitto per molto tempo da un singhiozzo continuo, dovuto forse ad una gastrite. Poi nel 1956 una malattia lo portò in fin di vita ma sopravvisse. Secondo alcune testimonianze, durante la malattia ebbe un'apparizione di Cristo che lo avrebbe miracolosamente guarito. Pare che papa Pacelli gli abbia chiesto di "portarlo via" («Voca me») ma Gesù abbia replicato che «non è ancora arrivato il momento». L'Osservatore Romano confermò la notizia dell'apparizione. Tra i suoi ultimi atti ufficiali, l'enciclica Fidei Donum (1957) con la quale invitò la Chiesa intera a riprendere lo slancio missionario soprattutto condividendo i sacerdoti con le giovani chiese. XII morì a Castel Gandolfo alle 3:52 del 9 ottobre 1958 a seguito di un'ischemia circolatoria e di collasso polmonare, all'età di 82 anni. L'archiatra papale, Riccardo Galeazzi Lisi, scattò di nascosto delle fotografie al Papa agonizzante e le vendette a prezzo d'asta ai giornali, insieme al resoconto degli ultimi giorni di vita del Pontefice. Fu uno scandalo e il collegio cardinalizio lo licenziò in tronco ma le foto avevano già fatto il giro del mondo. La salma di Pio XII fu trasportata in Vaticano con un carro funebre del Comune di Roma. Per l’imbalsamazione della sua salma, lo stesso Galeazzi Lisi decise di adottare un nuovo metodo. La tecnica applicata sul corpo del pontefice, che era già in stato di decomposizione, si rivelò invece un completo fallimento. Per rimediare, venne convocato davanti alla salma, che giaceva ancora nella basilica, un gruppo di medici legali esperti nel campo dell'imbalsamazione. Gli esperti eseguirono una nuova imbalsamazione utilizzando ovatta e formalina, riuscendo a rallentare il processo di decadimento organico. Ma nonostante il nuovo intervento la situazione era oramai compromessa; ciò costrinse gli addetti a posare sul volto del papa una maschera di cera (cerone mischiato a composti alcalini). Eugenio Pacelli è sepolto nelle Grotte Vaticane vicino alla tomba di Pietro, che egli contribuì a individuare. Il 18 ottobre 1967, otto anni dopo la sua morte, Paolo VI ne aprì il relativo processo diocesano per la causa di beatificazione e canonizzazione. La causa per la beatificazione ha sollevato dubbi soprattutto all'interno della comunità ebraica, a motivo del suo silenzio sullo sterminio degli ebrei, ma anche all'interno della stessa Chiesa Cattolica. Il 19 dicembre 2009, con un decreto firmato da papa Benedetto XVI che ne attesta le virtù eroiche, è stato proclamato venerabile. Critiche in merito sono venute dalle comunità ebraiche. Diversi rabbini hanno parlato di scelta che addolora e riscrive la storia.

venerdì 25 dicembre 2009

Quando Pio XII andava a trovare i Gerini in Villa


Nella foto: Arturo Villoresi con la moglie sulla copertina del suo libro.
Si fa un gran parlare della beatificazione di Pio XII in questo Santo Natale 2009, ma forse non tutti sanno i rapporti che questo Papa aveva con la nostra città. Ce li facciamo raccontare da un cronista d'eccezione, Arturo Viloresi, che nel suo manoscritto "Sesto Fiorentino: notizie di storia, geografia, arte" del 1950, reperibile presso la Biblioteca comunale ne dà notizia: "Corte (Villa Gerini) (L'origine del nome "Corte" ci riporta all'epoca dei Goti e dei Longobardi i quali, secondo il costume germanico tramandatoci da Tacito, non permettevano che le abitazioni fossero tra loro accanto in guisa che ciascun domicilio era circondato da uno spazio di terreno che si chiamò "Corte". Il quale nome in seguito più latamente fu applicato ai palazzi di proprietà regia, alle residenze di giustizia, ossia tribunale dei messi, o giudici straordinari di natura regia e finalmente al distetto territoriale di un possesso ustico di villa, di un circondario di castello, o villaggio, o terra; così che tanto aveva la sua corte un podere, quanto un pretorio una vasta tenuta, un qualche territorio di comunità). Vicino a Doccia, poco più in basso ma in bella posizione è la bella villa, rinodernata ai primi del secolo scorso, che appartenne fino dal XIV secolo a messer Filippo di Barone Cappelli, cittadino di grande autorità e gonfaloniere insigne della Repubblica Fiorentia, l'anno 1382. Rimase in questa famiglia che aveva le sue case in Firenze nel popolo di Santa Maria Maggiore, fino all'anno 1654, quando per la morte del capitano Niccolò Cappelli, il suo testamentario vendè la villa per tremila scudi al Marchese Ferrante di Niccolò Capponi il quale, per suo testamento nel 1688, chiamò erede usufruttuaria dei detti beni, sua moglie Margherita nata Capponi, vedova già del conte Orlando del Benino, ed eredi proprietari dei beni medesimi, i conti Giovan Francesco ed Orlando del Benino suoi figliastri. (La famiglia del Benino ebbe due martiri della libertà nelle persone di Francesco di Neri e di Carlo di Filippo, di cui il primo, arrstato a Campi insieme con altri fuoriusciti, fu come ribelle giustiziato il 15 gennaio 1537; mentre il secondo, il 7 settembre 1554, un lunedi, fu dal Magistrato degli Otto, posto con altri in pena di ribelle, con la confisca dei beni, per esser venuto meno con l'esercito francese contro il duca Cosimo dei Medici. Furono, i Del Benino, benemeriti delle arti e fu presso il conte Ferdinando che trovò largo aiuto e signorile protezione il Duprè che muoveva i primi passi nella scultura nella quale acquistò fama imperitura). L'ultimo di costoro, Orlando, il 28 aprile 1788 sposava la marchesa Ortensia del marchese Carlo Francesco Gerini, dai quale nacque il conte Ferdinando Malevolti del Benino, che morendo senza discendenti il 15 giugno 1860 lasciava erede il cugino marchese Carlo Gerini, che a sua volta passava la villa a sua figlia Maddalena andata sposa al marchese Zappi di Imola, per poi tornare modernamnte al marchese Piero Gerini, che morendo l'anno 1939 lasciava questa bella villa alla consorte marchesa Elisabetta (n.d.r. era invece Maria Teresa) Pacelli. L'interno della villa è ricco d'opere d'arte riunite con passione e coltivate con cura intelligente dal marchese Piero. Verso la fine del XV secolo, quando era proprietario il conte Del Benino furono qui trasportati i bellissimi cartoni dipinti dal Salviati, per alcuni arazzi ordinati dal re di Francia (tali cartoni esistevano l'anno 1821). Vi è annesso alla villa un vasto giardino alberato da magnifici esemplari di piante d'alto fusto, ricco di acque che incanalate scendono dal monte sovrastante per riversarsi in un laghetto ed in varie vasche. (Il giardino ed il parco vennero ampliati disfacendo parte dell'immenso podere dallo stesso marchese Ginori, dopo che entrò in possesso della villa l'anno 1860). In occasione del martimonio Gerini-Dufour Bertè, che avvenne nella primavera dell'anno 1938, fu ospite di questa villa e benedisse quelle nozze, l'allora Sua Eminenza il cardinale Pacelli (cugino del padre della marchesa Elisabetta (n.d.r era invece Maria Teresa) Pacelli Gerini) ora S.S. Pio XII".

domenica 20 dicembre 2009

La famiglia Gerini


I Gerini nascono come speziali e fin dai primi documenti che appaiono con il loro nome, nei primi del secolo XIV, sono compresi tra le famiglie fiorentine più abbienti, segno che il loro lavoro doveva dare delle grosse soddisfazioni. Poi divennero mercanti e iniziarono ad espandersi in Europa aprendo banchi d'affari. Nel '400 seguirono i fiorentini che intraprendevano la strada del commercio verso il Levante e, in concorrenza con Venezia, iniziarono ad inviare ad Oriente stoffe e prodotti artigianali fiorentini, per poi comprare con il ricavato le spezie che sarebbero stato smerciate in Italia ma non solo. Era il tempo in cui in Oriente il fiorino d'oro si scambiava alla pari con il ducato veneziano. Agli inizi del '500 i Gerini formano una compagnia con i Corsini, aprendo un banco d'affari a Londra specializzato nel cembio di valute. Nel 1499 fu priore di Firenze Girolamo Gerini, proprio mentre Firenze era ancora percorsa dai fremiti degli scontri per il Savonarola e con i Medici che premevano per tornare in città dopo che nel 1494 era stato scacciato Piero. I Gerini comunque escono indenni dalla burrasca seguita al ritorno dei Medici ed all'assedio di Firenze del 1530 e ne abbiamo dimostrazione con il matrimonio di Andrea, nipote di Girolamo con una Medici. Il figlio Carlo saprà conquistarsi poi la fiducia del cardinale Carlo de' Medici che gli fece addirittura ottenere il titolo marchionale da Filippo IV re di Spagna, dopo che aveva acquistato, grazie ancora ai Medici, vasti possedimenti in Abruzzo. Dello stesso ramo della famiglia faceva anche parte Pierantonio Gerini, che fece parte delle alte sfere dell'esercito toscano alla corte di Cosimo III de' Medici, da cui ebbe l'incarico di controllare le scorribande del figlio Ferdinando, inquieto principe che tanto aveva preso dalla madre Marguerite Louise D'Orleans che tanto si dolse della vita monotona di corte a Firenze a confronto con quella esagerata di Parigi. I Lorena portarono grossi cambiamenti a Firenze ma i Gerini restarono ancora in sella, cambiando però interessi. Nel secolo XVIII li videro impegnati nella stampa di opere di grafica che renderanno famoso un artista come Giuseppe Zocchi. I Gerini erano gente corretta, buoni amministratori, fedeli agli impegni: per questo anche con i Lorena al potere, la famiglia continuò a godere la fiducia dei governatori. Convinti come i Lorena che le riforme valessero più di ogni rivoluzione, divennero ottimi amministratori anche del nuovo stato toscano. Più tardi i Gerini plaudirono all'impegno di Papa Pio IX che fu più volte invitato a Firenze sia nella loro villa de Le Maschere a Barberino di Mugello, che nel loro palazzo fiorentino di via Ricasoli. Quest'ultimo sorse in quella che si chiamava via del Cocomero per la presenza del teatro che portava lo stesso nome, su un ampliamento del preesistente edificio di proprietà, guardacaso, dei Ginori. Acquistato dai Da Gagliano, famiglia proveniente dal Mugello, nel 1455, fu ampliato dagli anni '80 del '400 fino ai primi del secolo successivo. Il palazzo fu venduto ai Salviati fino alla cessione definitiva ai Gerini del 1650. Nel 1798 i Gerini aggiunsero al primo palazzo un'altra proprietà ceduta dai Serguidi.

venerdì 18 dicembre 2009

Breve storia e descrizione della Villa Gerini e del suo parco

Villa Gerini si trova in via XX Settembre, 259 nella località di Colonnata a Sesto Fiorentino (FI).

La villa, circondata da un ampio parco, risulta documentata come residenza extraurbana fin dal XIV secolo, quando ne era proprietaria la famiglia fiorentina dei Cappelli. Nel 1654 passò ai Capponi, che la lasciarono in eredità alla famiglia Malevolti Del Benino, l'ultimo dei quali sposò nel 1788 Ortensia Gerini. Nella seconda metà dell'Ottocento diviene proprietario il marchese Carlo Gerini, a cui si devono l'aspetto e la denominazione odierna della villa. L'edificio è stato oggetto di continue e rielaborazioni lungo l'arco dei secoli; l'aspetto severo e le monumentali dimensioni odierne derivano in gran parte dagli interventi condotti dalla famiglia Gerini.Il parco risalente al XIX secolo, a seguito di una trasformazione di orti e poderi circostanti, è composto da un boschetto di lecci tagliato da vialetti, da un parterre a prato con ornamenti e vasche in pietra e da un lago artificiale nel mezzo del quale affiorano due isolotti che ospitano un padiglione destinato a sala da thè. Si accede alla villa attraverso una scalinata che si affccia su un imponente atrio, comunicante con tutti gli ambienti interni, per una superficie complessiva di 500 mq circa al pianterreno e 300 a quello superiore. Incantevole anche la serra che ha all'interno una parete ornata a spugne, e le altre affrscate, con piatti della manifattura ginori messi come tondi ornamentali.

lunedì 14 dicembre 2009

Giornata 1 - Tappa 2 del "Cammino di Pinocchio": Il parco della villa Gerini è il Campo dei Miracoli


Nella foto: villa Gerini
L'ex manifattura di Doccia, che abbiamo preso come tappa numero 1 del "Cammino di Pinocchio" è esattamente al centro del percorso che segue le tracce sul territorio alla scoperta delle ambientazioni del libro scritto da Carlo Collodi. Ovviamente un tratto presegue verso l'area del quartiere fiorentino di Castello, un altro prosegue lungo il centro di Sesto Fiorentino, cittadina dell'hinterland fiorentino, fino ad arrivare al quartiere fiorentino di Peretola. Per adesso abbiamo deciso di dirigersi verso questo secondo tratto. Ecco quindi che proprio di fronte all'ingresso della Manifattura troviamo la villa Gerini con il suo parco. Ecco ecco quindi quello che ci racconta il noto studioso sestese Nicola Rilli, che ha intervistato gli amici di Carlo Collodi poco dopo la sua morte nel suo libro "Pinocchio in casa sua": "Come abbiamo detto, la Volpe e il Gatto condussero Pinocchio nel Paese dei Barbagianni e cioè a Colonnata, accanto al Campo dei Miracoli (...). Era un prato assai bello, con un bel bosco da una parte e un platano vecchissimo. Pensate che ha una circonferenza di più di sei metri, ha il tronco vuoto ove si entrerebbe comodamente seduti a prendere il caffè ed è uno degli alberi più vecchi della zona. Ora quel prato è il giardino della villa Gerini che è uno dei più bei giardini che si possono ammirare da quelle parti. Adesso, ragazzi, vi spiego perché quel prato fu chiamato dal Lorenzini il Campo di Miracoli. Carlo come abbiamo detto, bazzicava l'Osteria del Gambero Rosso e in quel tempo successo un fatto curiosissimo. Il giardiniere della villa, che si chiamava Francesco Zoppi, un bel giorno trovò . Il fatto fece molto chiasso e, come potrete immaginare, il tesoro si ingrossò talmente da diventare colossale. Infatti i cento fiorini d'oro trovati, il giorno dopo diventarono cinquecento, dopo due giorni erano mille, poi duemilacinquecento ecc., come se uno li avesse seminati nella notte e si fossero moltiplicati. Lo Zoppi consegnò, com'era giusto, il tesoro al legittimo proprietario, che allora era il Conte Orlando del Benino. E siccome la gente cattiva rimproverava lo Zoppi di aver ridato tutto quell'oro al Conte, per non passare da sciocco, andava dicendo a tutti: (...) a me queste storie le ha raccontate il nipote Bruno Zoppi (...).".

martedì 8 dicembre 2009

La porcellana rende Sesto importante fin dall'alba dei tempi


Nella foto il gruppo "Il cammino di Pinocchio sulla tomba de' La Montagnola'"
Nella zona di Olmicino si ritrovano le prime evidenze archeologiche sestesi. Risalgono al Mesolitico ed è presumibile che il territorio sia stato frequentato sporadicamente durante il Paleolitico. Probabilmente gli insediamenti umani più antichi erano localizzati sulle alture che circondano l'area. La loro assenza sui rilievi a nord però potrebbe anche essere il risultato delle intense attività erosive che possono aver alterati i depositi pleistocenici. Il ritrovamento del piccolo stock di armature ipermicrolitiche mesolitiche raccolte all'interno di un cantiere edile in via dell'Olmicino è importante soprattutto per sua posizione geografica: non si tratta di un sito di altura, ma di un insediamento di pianura.Ma è nello studio dell'eneolitico che subentra l'importanza della nostra area: infatti le facies (termine più preciso con cui un tempo si indicava la "cultura") enelotiche della Toscana nordocidentale sono note soprattutto grazie agli scavi nel territorio sestese. Da qui provengono significative testimonianze relative agliinsediamenti, mentre non si conoscono dati sulle modalità funerarie. La presenza di siti pluristratificati e di datazioni radiometriche ha permesso di definire una scansione della facies locale dell’Eneolitico in tre fasi. La prima è una fase formativa. La produzione ceramica si caratterizza per l’abbondanza di forme basse semplici, troncoconiche e a calotta, d’impasto depurato. La decorazione è costituita da motivi graffiti a fasci di zigzag, piccole bugne anche a coppie, elementi per i quali è stata sottolineata una diretta discendenza dalla facies tardoneolitica di tipo chasseano, confermata dalla posizione stratigrafica dell’insediamento di Via Verga. La produzione in impasti grossolani presenta sporadicamente i trattamenti delle superfici a striature e a squame. La seconda fase, per la quale si è prevalentemente studiato il sito in via Leopardi, vede l’affermarsi di una produzione di forme dal profilo articolato profonde e medie, associate a forme semplici cilindriche e troncoconiche. La decorazione è prevalentemente costituita da squame e striature, ma sono presenti anche impressioni disposte su file e larghe solcature. Si segnala la presenza di anse a nastro sopraelevate sull’orlo e di cordoni multipli. Gli impasti sono grossolani. La seconda fase eneolitica di Sesto Fiorentino testimonia di una complicata rete di rapporti tra la Toscana settentrionale e diverse aree dell’Italia centromeridionale, sia con il versante adriatico sia con il versante tirrenico. Nella terza fase, rispetto alla precedente, si osserva la scomparsa delle forme composte a favore di quelle profonde semplici, cilindriche e troncoconiche, decorate da squame o più frequentemente da striature. Permangono le anse sopraelevate sull’orlo e i cordoni, anche multipli. Nonostante la vicinanza geografica, si può osservare come i caratteri condivisi tra i due gruppidella Toscana settentrionale siano solo molto generici; in genere questa differenza vieneinterpretata come conseguenza di un maggiore isolamento del gruppo occidentale, che sviluppaalcuni caratteri generali dell’Eneolitico dell’Italia centrale, tra cui il gusto per le superfici scabre, la prevalenza di forme profonde e semplici, creando un aspetto locale che non viene poi interessato dalle importanti correnti che hanno coinvolto la penisola nel corso del III millennio; al contrario, il gruppo orientale avrebbe assorbito e rielaborato gli impulsi esterni in modo dinamico, come sembra testimoniare la molteplicità delle influenze riconoscibili nella produzione ceramica.

mercoledì 2 dicembre 2009

lo sviluppo della porcellana a Sesto nel corso dell'800

Tra la fine dell'800 e gli inizi del '900 furono fondate le prime manifatture artigianali, spesso ad opera di maestranze uscite dalla Manifattura Ginori. Verso il 1891 fu fondata la Società Ceramica Colonnata, intorno al 1896 la Società Industriale per la Fabbricazione delle Maioliche Artistiche che agli inizi del '900 sarebbe stata rilevata da uno dei soci fondatori, Egisto Fantechi. Nel corso del primo quindicennio del '900 furono costituite la Cooperativa Ceramica Federale, la Manifattura Ernesto Conti e la Ceramica Artistica Alfredo Ciulli. Altre manifatture artigianali iniziarono la loro attività negli anni '20: la Barraud&Messeri, la Carraresi e Lucchesi, la Manifattura Alma, la S.A.C.A. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale le manifatture ceramiche artigianali erano circa trenta. La produzione di talune aziende rimase entro i canoni stilistici di fine Ottocento, altre manifatture seppero invece cogliere il pungolo dei filoni contemporanei. Il grande sviluppo della produzione artigianale avvenne tuttavia solo nel secondo dopoguerra, ancora una volta in coincidenza con un momento di crisi e di trasformazione della manifattura Richard-Ginori. Oggi la maggior parte di esse sono o scomparse o si sono trasferite, come le Porcellane Mangani, nei territorio vicini, come Calenzano. Questo nell'ambito di alcune agevolazioni fiscali che interessarono i comuni limitrofi ad inizio '900 classificati dal Governo come paesi da sviluppare, al contrario di realtà importanti come Sesto Fiorentino. Comunque ancor oggi qualche decina di aziende del settore continuano ad essere rappresentate sul territorio oltre al colosso Richard-Ginori.